Vi è mai capitato di visitare un museo ebraico in Italia, magari ospitato nei locali di una suggestiva antica sinagoga (dal greco syn- “insieme” e ago “conduco”)? Sicuramente è un’esperienza da fare, ricca di significato e di storia. Per citarne alcuni, ad esempio, il Museo Ebraico di Venezia (fondato nel 1954 nel Ghetto Novo) ospita una sala dedicata alle maggiori festività religiose raccontate attraverso gli oggetti rituali, come i famosi candelabri di Channukkà (o Hannukkah “inaugurazione”); il Museo Nazionale dell’Ebraismo e della Shoah di Ferrara presenta più di duemila anni di storia, vista con gli occhi degli ebrei italiani; il Museo della Padova Ebraica è collocato nella prima e più grande Sinagoga Ashkenazita, fondata nel 1522 e attiva fino al maggio del 1943, quando venne data alle fiamme da un gruppo di fascisti. Ma non dimentichiamo molte altre località, come Firenze, Siena, Roma, Livorno, Gorizia, Casale Monferrato… insomma, la storia ebraica fa parte della nostra storia, è storia italiana.
La maggior parte dei musei e dei luoghi di culto ebraici si trovano in quartieri denominati ghetti. Questa parola è attestata in italiano sin dal Cinquecento e, probabilmente, deriva dal veneto gheto “getto, fonderia”, poi nome di un’isola veneziana in cui era appunto presente una fonderia e in cui, dal 1516, furono isolati gli ebrei di Venezia. Un altro termine che, purtroppo, è associato al popolo ebraico è diaspora ‘dispersione’ (dal greco diaspèiro, ‘disseminare’). Si tratta di un vocabolo che usiamo per indicare, nel caso specifico riguardante gli Ebrei, “l’abbandono della Palestina” (a partire dall’esilio Babilonese del VI sec. a.C. e specialmente dopo il 135 d.C. quando venne distrutto il Tempio di Gerusalemme): il popolo ebraico è stato, infatti, costretto ad abbandonare la propria terra, disperdendosi negli altri paesi. Oggi, lo usiamo anche per indicare “la dispersione dei membri di una comunità religiosa in un paese dove la maggioranza segue una fede diversa”.
Un termine spregiativo che è, invece, sinonimo di ebreo è la parola giudeo, ossia “colui che appartiene alla tribù di Giuda”: si tratta dell'unica Tribù rimasta dopo la distruzione del regno di Israele, nel 722 a.C. Mentre l’aggettivo sionista (da Sion, nome della collina di Gerusalemme) indica chi supporta politicamente l’autodeterminazione del popolo ebraico e la costituzione dello stato di Israele (nato ufficialmente nel 1948). Si usa, d’altra parte, il termine antisemita per descrivere “chi è avverso agli Ebrei e alle loro istituzioni”, vocabolo composto dal prefisso anti- che indica “avversità” e dall’aggettivo semita da “Sem”, il figlio di Noè che secondo la tradizione biblica sarebbe il progenitore dei popoli semitici.
Concludiamo il nostro breve excursus con una manciata di termini ebraici che usiamo spesso in italiano, precisando che si tratta di parole giunte nella nostra lingua generalmente tramite il greco antico. Pensiamo, ad esempio, ad amen “così è, in verità”, e nel lat. ecclesiastico “così sia”; alleluia, da hallelu yah “lodate il signore” e sabato da shabbat “il (giorno) di riposo”, ma anche cabala (Qabbālāh “ricezione, tradizione”) che oggi indica anche i libri che suggeriscono i numeri fortunati e Pasqua da Pesah “epifania, manifestazione”. Come sempre, la storia della lingua nasconde tesori inaspettati!