Se siete a contatto con degli adolescenti, probabilmente vi sarete chiesti più volte cosa significa la parola maranza, termine che ultimamente imperversa non solo nei testi delle canzoni trap e drill e sui vari social come Tiktok, ma anche negli articoli di cronaca che parlano di comitive di ragazzi di strada responsabili di atti vandalici.
In breve, maranza vuol dire “tamarro”, “coatto”, ma non siamo assolutamente di fronte ad un neologismo: il vocabolo è nato a Milano già negli anni Ottanta con un significato simile e oggigiorno è stato rispolverato, diffondendosi a livello nazionale, anche grazie ai social network. Se vogliamo fare delle distinzioni, il maranza “classico” era un “discotecaro trash di provincia”, mentre il “maranza 2.0” ha un guardaroba tutto contemporaneo, che prevede tute acetate, scarpe da ginnastica, smanicati imbottiti, borselli firmati, orologi e collane varie, ma è anche membro di una sorta di baby gang, potenzialmente pericolosa.
Robe da maranza si intitola il brano del rapper italiano 8blevrai (Otmen Belhouari, classe 1997), che nel ritornello descrive proprio l’abbigliamento distintivo di cui parliamo: “Robe da maranza/ Squalo (una tipologia di scarpe da ginnastica), sacoche (borsello) Ram pam-pam-pam/ Robe da maranza/ Lame, Lacoste (un marchio di maglieria) Ram pam-pam-pam”. La stessa canzone recita “E sai, io sono la street”, a testimoniare l’autoaffermazione di questa categoria come “ragazzi di strada”. Per tornare agli anni Ottanta, anche il celebre Jovanotti ha usato questo termine nella canzone Bella storia, edita nel 1989. Il testo parla di quanto è bello, da adolescenti, poter andare vacanza con gli amici per “essere libero di fare i tuoi danni”, che si traduce in “pensare e fare sempre quello che ti viene in mente” e “vestirsi da scemi e fare i maranza”.
Un altro termine annoverabile tra le nuove parole del linguaggio giovanile è sicuramente il verbo dissare, derivante dall’inglese to dis (o diss come accorciamento di disrespect), con l’aggiunta della desinenza -are della prima coniugazione. Dissare significa in primo luogo “insultare qualcuno attraverso il testo di una canzone” e per estensione “screditare qualcuno o qualcosa, insultare, farsi beffe di qualcuno”. Il termine ha origine nel gergo della musica rap italiana ed è affine al sostantivo non adattato (dall’inglese) dissing “offese tra amici”. Un o una giovane, quindi, potrebbe parlare di un cantante che ha dissato un altro artista, oppure di un dissing a cui ha assistito in rete.
Terminiamo la nostra rassegna con un altro verbo attinto dall’inglese: flexare, cioé “ostentare, vantarsi”. Si tratta infatti di un uso figurato di to flex “piegare, flettere” che si riferisce al gesto di piegare il braccio per mettere in mostra i muscoli, quindi vantarsi. Possiamo usarlo in una frase come “Mi piace flexare con il mio nuovo vestito” oppure “se hai i soldi devi flexare”. E voi, cosa volete flexare?