La parola patrimonio deriva dal latino pater “padre” e nasce in origine per indicare “tutto ciò che è del padre, appartiene al padre”, inteso come fulcro della superata società patriarcale. Parliamo inizialmente di beni materiali mobili e immobili di interesse economico, che si possono cioè possedere, ereditare o dilapidare. In tutt’altro campo, quello della biologia, viene preso in prestito questo termine per indicare “i caratteri genetici che un individuo eredita dai propri genitori”: ci riferiamo al patrimonio ereditario o cromosomico delle nostre cellule. Già nel Settecento, tuttavia, emerge una diversa accezione della parola patrimonio, figurata, usata per descrivere i “valori materiali e immateriali che appartengono ad un individuo o ad una collettività per eredità e tradizione”. Diventano quindi patrimonio i monumenti storici, gli studi, le letture e i valori di una persona, ma anche la lingua di una comunità, le abitudini rituali di un popolo, i canti tradizionali di una regione, le favole dei nonni, le ricette di cucina locale, i mestieri artigianali perfezionati e tramandati di generazione in generazione, e molto altro.
Da poco più di un anno, e più precisamente dal 24 ottobre 2020, l’Italia ha ratificato la cosiddetta Convenzione di Faro (Portogallo, 2005), ossia la Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società. Ed è proprio questo “per la società” che ci interessa: si tratta di un documento che allarga i confini semantici del termine patrimonio culturale, da intendersi non solo come “insieme di risorse materiali e immateriali ereditate dal passato”, ma anche come “valore identitario attribuito dalla comunità tutta, a quelle risorse”. Siamo dunque chiamati noi, in prima persona, a stabilire cos’è di valore per la nostra comunità, cos’è patrimonio. L’accesso al patrimonio culturale entra a far parte, a pieno titolo, dei diritti umani e la sua conservazione diviene un nostro dovere civico, in quanto responsabili di salvaguardare e tramandare ciò che ci identifica e migliora la nostra qualità di vita, ciò che parla di noi.
In qualità di ente internazionale votato alla valorizzazione del patrimonio culturale (umanistico e scientifico) materiale e immateriale, l’UNESCO promuove la candidatura di opere, monumenti, beni architettonici e paesaggistici, siti archeologici, ecc. per entrare a fare parte della Lista del patrimonio mondiale. Tutti questi luoghi sono riconosciuti e da tutelare per il loro eccezionale valore universale. Non da meno è la Lista del patrimonio immateriale che, a differenza di quello materiale, viene proposto e scelto non per la sua universalità ma perché sia rappresentativo della diversità e della creatività umana. Per quanto riguarda l’Italia, ad oggi, di quest’ultima categoria, fanno parte 14 elementi tradizionali: i pupi siciliani, il canto a tenore sardo, i liutai di Cremona, la dieta mediterranea, la vite ad alberello di Pantelleria, la falconeria, l’arte del “pizzaiuolo” napoletano, l’arte dei muretti a secco, la perdonanza Celestiniana, l’alpinismo, la transumanza, l’arte delle perle di vetro e quella dei suonatori di corno da caccia. Cosa ci riserveranno i prossimi anni?
Per saperlo, forse basterebbe parlare con i giovani, osservare la vita che ogni giorno ci circonda e chiedersi quale forma di espressione, di tutto ciò che caratterizza il nostro presente, sarà il nostro valore aggiunto per il domani. Pensiamo alla street art, alle gallerie d’arte in digitale, alla modellazione 3D, al video mapping, alla musica trap, all’attenzione verso la sostenibilità... Quale sarà, secondo voi, il patrimonio del futuro?
Immagine: Creative Commons (CC BY-SA 4.0)