Parliamo spesso di neologismi e di come la lingua evolva nel corso del tempo e si modifichi prendendo in prestito parole dalle altre lingue o creando nuove combinazioni. Invece, si parla un po’ meno spesso dei vocaboli dimenticati in un angolo, chiusi in un cassetto della memoria di qualche antenato, di quella lingua che come ha scritto l’editorialista del Corriere Paolo Di Stefano qualche tempo fa “è inutile rimpiangere ma è bellissimo studiare”. Ne scrive ampiamente, sia dal punto di vista lessicale, sia grammaticale e sintattico, lo storico della lingua e accademico della Crusca Vittorio Coletti, nell’interessante volume L’italiano scomparso, edito dal Mulino nel 2018. Possiamo scovare alcune di queste parole in biblioteca, sfogliando i volumi del GRADIT (Grande dizionario dell’italiano dell’uso) curato da Tullio De Mauro nel 2000, ricercando i termini accanto ai quali compare un quadratino con su scritto OB: la marca che contraddistingue i vocaboli obsoleti, cioè antichi e in disuso come doglienza ‘dolore’ o intenza ‘concetto’ o la preposizione sovresso. Le parole “in pensione”, stando agli studi di De Mauro, sono circa 13.554 nella lingua italiana, ma si sale ad oltre 20.000 se si contano le accezioni obsolete di termini che ancora oggi usiamo. Ad esempio, Dante utilizzava il termine sensato come un sostantivo per indicare “un oggetto sensibile”; oggi per noi questa parola esiste ancora ma ha un altro ruolo grammaticale (aggettivo) e una differente accezione ‘ragionevole’.
Così parlar conviensi al vostro ingegno / Però che solo da sensato apprende / Ciò che fa poscia d’intelletto degno (Paradiso, IV, 40-42)
Alcuni termini hanno perso il loro uso quotidiano perché questo è caduto in disuso o è cambiato ciò che rappresentavano. Pensiamo, ad esempio, alle armi da guerra come il saeppolo (‘tipo di arco’) o il fustibalo (‘fionda’); Dante chiamava tollette i “saccheggi e le rapine”, residuo del verbo latino tollere (‘togliere, alzare, distruggere’), ma per noi questa parola non ha nessun significato. Un letterato particolarmente attratto dai termini arcaici fu sicuramente Gabriele D’Annunzio, che nelle sue opere riprese molti termini danteschi, come fortuna ‘tempesta’, trambasciare ‘essere angosciato’ o arrubinato ‘riempito di vino’, e boccacceschi come squarquoio ‘lurido’ o cucurbita ‘zucca.
Nel 2019 la casa editrice Zanichelli ha attirato l’attenzione sui vocaboli non ancora obsoleti, ma “in via d’estinzione”, lanciando in tutta Italia l’iniziativa #Paroledasalvare. Il progetto, che ebbe successo in varie piazze della penisola, si poneva il duplice obiettivo di far conoscere parole meno comuni, ma allo stesso tempo stimolarne un nuovo utilizzo, per un arricchimento del lessico che contrastasse l’impoverimento del pensiero stesso. L’edizione 2020 del Vocabolario ne ha evidenziate circa tremila, contrassegnandole con il simbolo di un fiorellino, mentre il pubblico ha potuto adottarle scegliendone una da postare sui social con il suo significato, così da farla circolare di nuovo. La notizia è giunta fino allo stilista e designer Massimo Giorgetti che ne ha adottate cinque, per descrivere la collezione che stava per presentare alla Milano Fashion Week: impavido, impetuoso, illogico, vivido e radioso. Voi quali avreste scelto?