Avete mai sentito parlare dell’unico sistema di scrittura al mondo creato dalle donne per le donne? È esistito veramente ed era una vera e propria lingua scritta e parlata: il nü shu. L’hanno inventata le donne del popolo Yao nello Hunan (provincia della Cina Meridionale) per poter comunicare segretamente rispetto agli uomini del gruppo etnico prevalente in Cina, quello Han, basato su una società patriarcale, che non permetteva loro di partecipare alla vita politica, relegandole al ruolo di casalinghe. Gli uomini, attorno agli anni Cinquanta, iniziarono ad interessarsi agli strani simboli che vedevano anche cuciti sui vestiti, pensando che si trattasse di uno strumento di spionaggio, ma l’interpretazione dell’idioma fu rivelato dalle donne stesse solo negli anni Ottanta, quando la società cinese iniziava a dirigersi verso la parità tra i sessi. Le parole, o come in questo caso una vera e propria lingua, possono davvero dare voce ad esigenze inespresse, rappresentando un potente strumento di libertà e affermazione.
Nonostante l’etimologia latina del termine donna (dominam “signora, padrona") evochi un ruolo di potere, sappiamo bene quanto si lotti ancora per l’uguaglianza tra i sessi, che in molti paesi e in diversi ambiti non è ancora raggiunta. Tra l’altro, essendo la lingua riflesso della visione della realtà da parte della società dominante, è davvero un affidabile testimone delle opinioni sedimentate attraverso i secoli nelle nostre comunità. Per farne un esempio, prendiamo in considerazione alcuni proverbi italiani che chiamano in causa la figura femminile: chi dice donna dice danno; donna al volante pericolo costante; donne e buoi dei paesi tuoi, chi donne pratica giudizio perde ecc. In tutti questi casi la donna è rappresentata in modo spregiativo e svilente come “priva di giudizio”, “non all’altezza delle abilità maschili” o addirittura “pericolosa”, fino ad arrivare ad una sua assimilazione ad “un animale posseduto”, i buoi.
Possiamo tuttavia affermare che i proverbi appartengono ad una cultura estremamente radicata nel passato e tradizionale, che accoglie a fatica il cambiamento; invece, l’apertura contemporanea della società alla “questione femminile” è ben rappresentata nella lingua dall’acceso dibattito ancora in corso sui femminili dei nomi di mestiere. Fino a qualche anno fa, infatti, nessuno avrebbe scommesso un euro sull’uso che oggi si fa sempre più diffuso di termini come ingegnera e avvocata, nonostante i suffissi -iere/-iera fossero morfologicamente già in uso per mestieri in cui la presenza femminile era più alta, se non prevalente, come ad esempio infermiera o cassiera.
Per non vanificare, ma anzi supportare gli sforzi che ogni giorno contribuiscono a condurci verso il superamento di una struttura androcentrica della società, è bene ricordare quanto la lingua sia un binario su cui viaggia il pensiero e che, proprio per questo, la nostra allerta verso gli automatismi linguistici dovrebbe essere alta. Potremmo accorgerci di divenire, “solo” grazie alla lingua che usiamo, motori del cambiamento, evitando di sminuire, ridimensionare e penalizzare le donne, anche a parole.