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Parole in conflitto

Scritto da A cura di Lucilla Pizzoli | 29-apr-2022 10.00.00

L’attuale invasione dell’Ucraina da parte della Russia è una guerra che colpisce l’intero continente europeo, e non solo. Nei telegiornali siamo quindi tornati a sentire sempre più spesso le parole che descrivono un pesantissimo scontro armato ma, facciamoci caso, alcuni di questi vocaboli non ci avevano abbandonati: già li usavamo in altri contesti. Ad esempio, nella lingua di tutti i giorni, l’espressione fare la guerra a qualcuno o a qualcosa (es. fare la guerra al fumo) significa “essergli ostile”. Quante volte abbiamo letto sui quotidiani titoli come “Guerra al carovita”, “Guerra al terrorismo”, “Facciamo la guerra al narcotraffico”, ecc.?

Anche la parola, conflitto, derivante dal latino confligere “combattere”, non indica solo uno “scontro militare”, ma anche – ad esempio – uno “scontro generazionale”, il classico conflitto genitori/figli, oppure “un’incompatibilità tra un incarico decisionale ricevuto e i benefici che il soggetto potrebbe trarne”: il conflitto d’interessi. Un altro termine che potrebbe capitarci di usare per descrivere in modo un po’ esagerato “qualcuno a cui piace litigare” è guerrafondaio. Quest’espressione deriva infatti dalla locuzione guerra a fondo, cioè “condotta con energia”, dalla quale nel 1914-15 Mussolini trasse anche il sostantivo guerrafondaismo, fortunatamente poco noto. Proseguiamo con l'espressione essere sul piede di guerra, cioè “essere pronti per intraprendere uno scontro (reale o figurato)”, attestata nella stampa milanese già nel Settecento, e che tutt’ora resiste (altra “parola da combattimento”). Proprio in questi giorni, ad esempio, i giornali scrivono: “Tornano gli scritti agli esami di maturità: studenti sul piede di guerra”. Per parlare anche di resistenza, ricordiamo che questo vocabolo così potente abbraccia, dalla seconda guerra mondiale in poi, i movimenti di lotta politico-militare (guerriglia, sabotaggi) allora sorti nei paesi Europei contro i nazisti e i paesi da essi sostenuti. Oggi come allora, la parola resistenza è usata dalla stampa internazionale per indicare l’esercito e i civili ucraini che stanno cercando di bloccare l’avanzata di Putin.

Naturalmente, ciò che tutti auspichiamo è che questa guerra (come tutte le altre che affliggono il mondo) finisca al più presto. Nel frattempo, ci accontenteremmo di una tregua, che magari conduca ad un negoziato. Entrambi questi termini non sono estranei alla quotidianità: invochiamo una tregua (parola di derivazione germanica) ossia “sospensione temporanea delle ostilità” quando una persona ci sta infastidendo (es. Dammi tregua!), ma la sentiamo usare anche dai meteorologi in relazione ad un periodo di afa o di forti precipitazioni: “con la pioggia, tregua alla siccità”, oppure “tregua finita: torna il maltempo”. Lo stesso vale per il negoziato (dal latino nec “non” e otium “riposo”): nel lessico bellico rappresenta “una trattativa di pace” ma nella quotidianità potremmo assistere ad un “negoziato tra governo e sindacati per la definizione di un nuovo contratto di lavoro”.

Per finire con amarissima ironia, non possiamo ignorare il celebre modo di dire scemo di guerra in tempo di pace che, attualmente, è “un’irrisione contro qualcuno che fa o dice qualcosa di stupido”. Un tempo però, dopo la prima guerra mondiale, la frase “scemo di guerra” aveva un significato solenne, connotando le persone che erano tornate traumatizzate e scioccate dal fronte, riportando gravi danni mentali (allora chiamato shell shock “shock da bombardamento” e oggi “disturbo post traumatico da stress”). Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, c’era voglia di dimenticare il passato e tuffarsi nel boom economico degli anni ‘50, così si aggiunse “in tempo di pace”. Insomma, con il vocabolario alla mano, ci accorgiamo di quanto la guerra sia entrata nelle nostre vite, molto più di quanto non crediamo.