In una delle Pillole della Dante della Società Dante Alighieri, Luca Serianni illustra gli aspetti linguistici della Commedia e spiega perché non siamo certi che la lingua parlata da Dante fosse “incredibilmente vicina” a quella che parliamo oggi.
La continuità tra la lingua italiana parlata al tempo di Dante e quella attuale è certa; altrettanto certi sono gli elementi di discontinuità tra due periodi così distanti. «Quando Dante comincia a scrivere la Commedia - osserva nel 1999 Tullio De Mauro - il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La Commedia lo fa proprio, lo integra e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi. Alla fine del Trecento il vocabolario fondamentale italiano è configurato e completo al 90%».
Molte delle parole presenti nel capolavoro dantesco col tempo hanno cambiato significato, alcune sono oggi desuete e altre sono state sostituite da forme di provenienza dialettale. Anche la grammatica è cambiata e taluni “meccanismi di derivazione e di composizione” nel 1300 non esistevano.
Dante scrisse la Commedia nella propria lingua materna, il dialetto fiorentino, che restava aperto ad apporti esterni. Si parla di plurilinguismo della Commedia per il gusto di impiegare più idiomi (il latino di Cacciaguida, il provenzale di Arnaut Daniel) evocando più registri linguistici. Non siamo però in grado di risalire agli effettivi usi linguistici del tempo di Dante e non possediamo autografi delle sue opere. Ciò che abbiamo di certamente dantesco è frutto di ricostruzione, a partire dalle parole presenti nelle sue rime che resistono grazie al vincolo metrico e si ritrovano, coerenti, nei codici più autorevoli. «Il testo della Commedia a cui si fa tuttora riferimento è quello dell’edizione critica predisposta nel 1966-1967 (e riveduta nel 1994) da Giorgio Petrocchi». L'edizione si basa «su 27 manoscritti anteriori al 1355, tra i quali [è] considerato dall’editore particolarmente affidabile il codice Trivulziano 1080» (Paolo D'Achille).
Il copista del Trivulziano 1080, Francesco di ser Nardo, aveva una bottega fiorentina specializzata nelle trascrizioni della Commedia e in tutto sono circa 800 i codici che la riportano per intero o in parte. Troviamo tracce dell'opera in alcune espressioni correnti, per esempio: "il bel paese" ("...là dove il sì suona", Inferno XXXIII, 79-80); scegliere “fior da fiore” (Purgatorio XXVIII, 41-42); ”non mi tange” (Inferno II, 92).
L'attuale prestigio della Commedia si spiega infine con l'immediata fortuna dell'opera, quando Dante era ancora in vita. Nelle novelle di Franco Sacchetti (1332-1400) si raccontano le reazioni infastidite del poeta per la mala recitazione della sua opera, “come un cantare”, da parte di un fabbro e di un asinaio. Ciò conferma la diffusione della Commedia presso i ceti più popolari.
Spiega Alberto Asor Rosa che «La perennità della Commedia è consegnata alla sterminata, anzi infinita, varietà delle sue risonanze, suggestioni, tematiche, sollecitazioni e risposte. Perché questo flusso continui a manifestarsi, occorre tuttavia che ci sia, da parte nostra – cioè da parte dei lettori di ogni tempo e paese –, un’estensione altrettanto illimitata delle attese e delle richieste» (in Apice 1/2015).
Le interpretazioni e rielaborazioni del difficile testo della Commedia, lungamente moltiplicatesi nel mondo artistico, proseguono con il modello divulgativo della lectura dantis, inventata da Giovanni Boccaccio cui dobbiamo anche la descrizione dell’aspetto fisico del poeta contenuta nel Trattatello in laude di Dante (una biografia di tono agiografico).
Fu Pietro Bembo, nel 1525, a interrompere la fortuna dantesca con le sue Prose della volgar lingua dove si definiscono esemplari la prosa di Giovanni Boccaccio e la poesia di Francesco Petrarca. La lingua di Dante, secondo Bembo, aveva assumeva un registro troppo variabile (alto, basso, popolare) e il suo vocabolario plurilingue era difficile da replicare.
Da notare che proprio la variabilità e l'alternanza sono due delle caratteristiche più apprezzate, oggi, nella lingua di Dante.
Dante fu poi un innovatore: l’uso della terzina e la ripresa delle similitudini, già frequenti nella poesia latina e poi decadute nel Medioevo, quando se ne raccomandava un uso prudente, sono due esempi. Le similitudini ricorrono in almeno cinquecento occorrenze dove Dante punta a chiarire i passaggi più complessi citando fatti della natura o anche (in minima parte) culturali. Nel Canto di Ulisse (Inferno, XXVI): «Quante lucciole vede il contadino che si riposa sul poggio». Nel XIV canto del Paradiso: «ne la mia mente fé sùbito caso / questo ch’io dico, sì come si tacque / la glorïosa vita di Tommaso».
Un altissimo valore della Divina Commedia è quello umanistico e l'universalità dantesca è parte delle ragioni che spiegano la fortuna dell'opera: «È un tentativo, il più grandioso che sia mai comparso dall’inizio dell’era umana, di dare una risposta globale, nel bene e nel male, ai grandi interrogativi della condizione umana: perché ci siamo, come ci siamo e come potremmo esserci al meglio?», (Asor Rosa, in Apice, cit.).
Lo scrittore albanese Ismail Kadaré scrive che Dante è stato “inevitabile” «nella storia albanese, offrendo con la sua arte una fonte di inesauribile bellezza e un rifugio agli orrori della storia». Inevitabilmente, anche un'enciclica (In preaclara summorum, firmata da papa Benedetto XIV nel 1921) fu emanata a seicento anni dalla morte di Dante. Così recita: «Mai, forse, come oggi fu posta in tanta luce la singolare grandezza di questo uomo, mentre non solo l’Italia, giustamente orgogliosa di avergli dato i natali, ma tutte le nazioni civili, per mezzo di appositi comitati di dotti, si accingono a solennizzarne la memoria, affinché questo eccelso genio, che è vanto e decoro dell’umanità, venga onorato dal mondo intero». Un mondo che Dante ci fa conoscere anche solo sfogliando le pagine del suo grande libro, viaggiando un po' con gli occhi, un po' con il pensiero.
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