La letteratura italiana può con certezza vantarsi di avere una delle tradizioni più antiche della letteratura occidentale. Tale radice storica è ancora più forte per quanto riguarda la lirica, genere che più di altri ha mantenuto alcune caratteristiche nel corso dei secoli.
La poesia italiana, infatti, si è presentata fin dalle origini – cioè a partire dalla seconda metà del Duecento con la Scuola Siciliana, e successivamente con la produzione dei Siculo-toscani e con Dante – come letteratura “alta”, elemento che ha favorito la formazione di una tradizione con la quale gli autori si sono confrontati da subito.
A ciò si aggiunge che, come è noto, già questi primi poeti si sono richiamati alla letteratura latina, antica e quindi nobile, richiamo che si è fatto più intenso con la riscoperta dei classici durante il Rinascimento. Il particolare rapporto di vicinanza, ovvero continuità, con questa, ha dunque molto probabilmente facilitato la convinzione degli autori italiani di appartenere a una storia illustre.
È inoltre possibile che a rafforzare la formazione di una tradizione abbia contribuito l’aspetto formale. Come già evidenziato precedentemente in questa sede, infatti, in Italia più che altrove alcune forme metriche delle origini hanno resistito nel tempo: in particolare, si parla della canzone e del sonetto, che sono ancora in uso nella lirica contemporanea.
Anche il linguaggio è da considerarsi un aspetto formale ed è vero, infatti, che esiste un lessico della poesia italiana e che questo rappresenta uno degli elementi con cui gli autori si sono confrontati, anche per rompere con la tradizione.
Facciamo dunque un paio di esempi, invitando il lettore a porre attenzione agli aspetti che abbiamo evidenziato finora: il primo, un sonetto del caposcuola della Scuola Siciliana, il secondo un sonetto di uno dei più grandi poeti contemporanei.
Giacomo da Lentini, Diamante, né smiraldo, né zafino
Diamante, né smiraldo, né zafino,
né vernul’altra gema prezïosa,
topazo, né giaquinto, né rubino,
né l’aritropia, ch’è sì vertudiosa,
né l’amatisto, né ’l carbonchio fino,
lo qual è molto risprendente cosa,
non àno tante belezze in domino
quant’à in sé la mia donna amorosa.
E di vertute tutte l’autre avanza,
e somigliante [a stella è] di sprendore,
co la sua conta e gaia inamoranza,
e più bell’e[ste] che rosa e che frore.
Cristo le doni vita ed alegranza,
e sì l’acresca in gran pregio ed onore.
Eugenio Montale, Gli orecchini, da La bufera e altro (1956)
Non serba ombra di voli il nerofumo
della spera. (E del tuo non è più traccia.)
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d’oro scaccia.
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l’iddia che non s’incarna, i desiderî
porto fin che al tuo lampo non si struggono.
Ronzano élitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli.