Volare è probabilmente uno dei verbi italiani più conosciuti all’estero, grazie al successo planetario della canzone di Domenico Modugno “Nel blu dipinto di blu”, spesso nota ai più come “Volare”. Impossibile dimenticare il suo melodioso ritornello, diventato una vera icona di italianità: “Volare oh, oh / cantare oh, oh, oh, oh / nel blu dipinto di blu / felice di stare lassù”.
Condividiamo questo verbo così leggiadro, che indica “l’azione tipica degli uccelli e degli animali alati di librarsi nell’aria”, con varie altre lingue romanze come lo spagnolo volar, il portoghese voar e il francese voler. Tra l’altro, sembra che derivi proprio dal francese la nostra abitudine di chiamare volante il “manubrio della macchina” poiché già nel Trecento le pale rotanti dei mulini a vento d’oltralpe erano chiamate volant e probabilmente lo adottammo molto tempo dopo in Italia, per similitudine di movimento.
Molte frasi fatte coinvolgono il verbo più leggero che ci sia, come il gergale mi fa volare, che nel linguaggio giovanile vuol dire “mi fa divertire” (basta ascoltare la canzone Volare di Rovazzi e Morandi per averne un esempio), o l’espressione vola basso, che sta letteralmente per “volare a bassa quota”, ma in senso figurato la usiamo per chiedere a qualcuno di “non avere troppe pretese, essere umile e non esagerare”. Se raccontiamo di aver fatto un volo probabilmente non abbiamo preso un aereo ma siamo “caduti o scivolati malamente”, mentre se incitando qualcuno pronunciamo le parole: “su, vola!” probabilmente non ci aspettiamo che decolli ma che “si sbrighi, porti velocemente a termine un incarico”. Anche la locuzione a volo d'uccello, che potremmo usare in una frase come “affronteremo l'argomento a volo d'uccello”, rimanda alla velocità e la potremmo sostituire con "rapidamente, sinteticamente", come se lo vedessimo dall'alto a grandi linee, senza dedicare molta attenzione ai particolari.
Anche la mitologia classica si è ispirata molto alla capacità degli animali di volare, spesso invidiata dall'uomo. L’acuto inventore Dedalo, ad esempio, avrebbe fabbricato due paia d’ali di cera e piume – per sé e per il figlio Icaro – che gli permisero di fuggire volando dal labirinto di Minosse, dove erano imprigionati. Icaro, ammaliato dall’ebbrezza di quest’esperienza sovrumana, dimenticò di seguire l’indicazione del padre e, avvicinandosi troppo al sole, perse la vita per lo sciogliersi delle sue ali. Un altro volo fallimentare, tanto famoso quanto metaforico è quello di Ulisse, che Dante Alighieri descrive nel XXVI canto dell’Inferno. Il poeta, infatti, immagina un finale diverso dell’odissea dell’Eroe: Ulisse non ha mai raggiunto Itaca, perché inghiottito dall’Oceano presso le cosiddette Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), confine del mondo allora conosciuto. L’astuto re, nel suo folle volo avrebbe infatti seguito l’insaziabile desiderio di conoscenza, spingendosi oltre i limiti concessi agli uomini. I remi della sua barca sono diventati ali verso l’ignoto:
[...] e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
(Inferno, XXVI - Dante Alighieri)