Sappiamo bene che, purtroppo, la parità di diritti e opportunità tra uomini e donne non è ancora stata raggiunta e che, attualmente, ancora in molti paesi è negato al genere femminile persino il diritto all’istruzione. Secondo i dati di Unicef, 132 milioni di ragazze nel mondo non vanno a scuola e, dei 781 milioni di adulti analfabeti, quasi i due terzi sono donne. Questo avviene, ad esempio, nei paesi rurali estremamente poveri, dove le figlie vengono tenute tradizionalmente a casa per essere date in sposa il prima possibile, oppure nelle zone di conflitto. Proprio per questo, e per gli abusi e gli ostacoli che le giovani donne sono ancora costrette ad affrontare per via della loro età e del loro genere, nel 2011 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato l’11 ottobre la Giornata Internazionale delle bambine e delle ragazze, nonostante l’esistenza della Giornata Internazionale della Donna.
Tra le parole più importanti nate per denunciare le diseguaglianze di genere, abbiamo l’espressione inglese gender gap, usata dai giornalisti italiani già dagli anni Ottanta. Con questo termine intendiamo “il divario di possibilità sociali, economiche e professionali che creano una differenza tra la vita delle donne e quella degli uomini”, non solo nei paesi più poveri. Ad esempio, un fenomeno estremamente frequente anche nei paesi più sviluppati è il gender pay gap, ovvero “quando la differenza di genere si manifesta nella retribuzione”. Secondo Luisa Rosti, docente di Economia del Personale e di Genere all’Università di Pavia, c’è una grande disparità di genere tra le persone che sarebbero in età da lavoro ma che invece sono inattive; va rilevato inoltre che la disparità tra uomini e donne è ancora maggiore al crescere del titolo di studio e del livello gerarchico. Ad esempio, nei settori artistico-culturali e sportivi lo scarto è pari al 59.7%; nel settore privato non agricolo, “la presenza femminile dimezza al crescere del livello gerarchico: le donne sono infatti il 58,6% degli impiegati, il 30,9% dei quadri e il 19,1% dei dirigenti (INPS 2020)” (come afferma la stessa Rosti nell’articolo Cosa sappiamo (e cosa non sappiamo) sulla gender pay gap, apparso sul “Sole 24 Ore” nel 2022).
Un altro termine molto attuale nella narrazione della parità di genere è sicuramente mansplaining. Si tratta di un vocabolo inglese (composto dal sostantivo man “uomo” e dal verbo to explain “spiegare”) che indica “un uomo che spiega a una donna qualcosa di ovvio o di cui lei è esperta, perché se detta da un uomo è più autorevole”. Tra i primi ad usare questo neologismo troviamo la scrittrice americana Rebecca Solnit, che argomenta le proprie ragioni nel saggio Men Explain Things To Me, e lo stesso New York Times che, nel 2010, inserisce il termine mansplainer nella lista delle 10 parole dell’anno. In italiano, la scrittrice Giulia Blasi l’ha ironicamente tradotto in minchiarimento, ma abbiamo anche la versione più politically correct di maschiarimento “chiarimento non richiesto da parte di un maschio”. Lo spagnolo propone il termine machoexplicación accanto a possibilità più formali come condescendencia machista/masculina, mentre il francese ha adottato mecsplication e pénispliquer. Voi quale proposta preferite? E soprattutto, pensate che un uso consapevole della lingua possa fare la sua parte nel contrasto alle diseguaglianze di genere?