L’Italia è decisamente entrata nell’epoca di un rinnovato femminismo, testimoniato da una forte attenzione dell’opinione pubblica e dei nostri punti di riferimento culturali all'emancipazione delle donne, alle minoranze non rappresentate, alla questione e alla violenza di genere e al discorso sul corpo non conforme agli stereotipi di massa. Moltissime sono le pubblicazioni divulgative italiane dell’ultimo anno, cartacee e online, al riguardo; solo per citarne alcune: Bastava chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano e Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più di Michela Murgia; Poverine. Come non si racconta un femminicidio, l’ebook di Carlotta Vagnoli; Manuale per ragazze rivoluzionarie. Perché il femminismo ci rende felici di Giulia Blasi; Belle di faccia. Tecniche per ribellarsi ad un mondo grassofobico di Chiara Meloni e Mara Mibelli; Parità in pillole di Chiara Facheris; Perché il femminismo serve anche agli uomini di Lorenzo Gasparrini; Questioni di un certo genere a cura di Arianna Cavallo, Ludovica Lugli e Massimo Prearo, e molte altre...
Proprio perché la lingua che parliamo riflette il nostro mondo, la questione di genere si è prepotentemente messa al centro anche del dibattito linguistico, ponendo dubbi su come comportarsi, non solo nei fatti, ma anche a parole. La società si sta interrogando sia sull’uso dei nomi professionali femminili che fino a pochi anni fa non erano considerati abituali, come sindaca, avvocata, ministra e magistrata, sia sulla terminologia più accurata per trattare con sensibilità e rispetto la delicata questione delle identità sessuali. Come saprete, il dibattito sulla stampa e online è accesissimo soprattutto sul tema dell’uso di simboli – come l’asterisco o lo schwa (*, ə) – proposti per “opacizzare” le desinenze maschili e femminili nel tentativo di presentare una lingua più inclusiva nei confronti delle persone non binarie, ossia che “non si riconoscono nella costruzione binaria del genere maschile/femminile”. La questione è estremamente complessa, ma allo stesso tempo interessantissima quindi, per chiarirvi le idee, vi rimandiamo ad una recente e accurata analisi scritta da Paolo D’Achille per l’Accademia della Crusca, riportata in questo articolo.
Speriamo di poter essere a nostro modo utili segnalando, brevemente, anche qualche espressione attualmente ricorrente nella comunicazione della questione di genere, il cui significato potrebbe essere meno familiare, ma che non per questo è meno degna di nota.
Con femminismo intersezionale, ad esempio, s’intende un movimento che presta attenzione a tutte le categorie di persone (non solo donne) oppresse da un sistema che tende a determinare ciò che è o non è “normale e accettabile”. La definizione di intersezionale deriva dalla geometria, dove l’intersezione è l’incrocio tra le assi di un piano cartesiano (che in questo caso corrispondono a sesso, razza, orientamento sessuale, abilità, magrezza, ecc.): seguendo le assi si percorre una “gerarchia dell’oppressione”, dove chi si trova all’intersezione è la persona meno conforme agli standard e quindi più a rischio di subire discriminazione o violenza. Ad esempio, una donna povera, grassa, omosessuale, disabile e di colore, è considerata più a rischio rispetto ad un ricco uomo bianco, magro, abile ed eterosessuale.
Ampliamo l’elenco con i termini cisgender o cisgenere e transgender o transgenere. Con queste parole identifichiamo, rispettivamente, “una persona che si riconosce nel proprio sesso biologico” e “una persona che si riconosce nel sesso biologico opposto o in un genere intermedio tra maschile e femminile”. Entrambi i vocaboli rispolverano le nostre conoscenze di latino, essendo composti dai prefissi lat cis- “al di qua, all’interno” e trans- “al di là, oltre”. Altri due composti basati sull’inglese gender “genere sessuale” sono genderqueer (queer vuol dire “obliquo”) “persona che non si riconosce in uno schema binario di genere”, genderfluid “persona che passa in modo fluido da un polo all’altro del sistema binario di genere” e gender questioning “persona che si interroga sulla sua identità di genere”.
Terminiamo con l’immancabile patriarcato, parola di derivazione classica con il significato di “capostipite di una famiglia” e usata già nell’Ottocento per indicare “una società basata sull’autorità paterna e la trasmissione dei diritti ai membri maschili”. In ottica femminista, è proprio la cultura patriarcale ad aver relegato la donna ad un ruolo di subordinazione e inferiorità. E voi, che nuove parole avete incontrato sulla questione di genere?