La letteratura italiana si può definire una tra le più conservative e dotte del panorama letterario mondiale. Questo accade poiché gli autori in primis percepiscono l’importanza e la validità della nostra tradizione (a partire naturalmente da quella latina) e si vogliono collegare a questa, spesso in modo esplicito e anche nel caso se ne vogliano distaccare, inserendosi in continuità con un canone ideale.
Ciò è riconosciuto anche all’estero ed è valido per tutti i generi letterari più classici e per tutti gli aspetti del testo, contenuto e forma.
A tale proposito, è possibile evidenziare lo straordinario successo di un genere letterario nato in Italia, quello del sonetto, che ha avuto un’incredibile diffusione nello spazio e nel tempo.
Come abbiamo già avuto precedentemente occasione di dire in questa sede, l'assoluta maggioranza degli studiosi ritiene che esso sia stato inventato da Giacomo da Lentini, caposcuola del primo movimento poetico in un volgare italiano, la Scuola Siciliana.
Il Notaro – questo il soprannome del poeta siciliano, notaio alla corte di Federico II di Svevia –, è infatti autore di ben ventidue sonetti su circa trentacinque complessivi della Scuola Siciliana (anonimi esclusi), sonetti i quali si trovano in apertura delle più importanti sillogi delle nostre origini, tra cui il più pregiato tra tutti, il manoscritto Vat. Lat. 3793.
La ragione dell’invenzione e del conseguente successo di questo genere va individuata probabilmente nel fatto che esso si presta ad una trattazione breve ma sufficientemente lunga di un tema: in due quartine e due terzine di versi endecasillabi è possibile infatti presentare e concludere per intero un’idea.
Facciamo dunque una breve carrellata di esempi di sonetti della letteratura italiana, per coprire un arco di tempo che va dal Duecento fino alla contemporaneità e per rappresentare il canone letterario menzionato all'inizio.
Cominciamo ovviamente proprio da uno di Giacomo da Lentini, Amor è uno desio che ven da core:
Amor è un[o] desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima genera[n] l’amore
e lo core li dà nutricamento.
Ben è alcuna fiata om amatore
senza vedere so ’namoramento,
ma quell’amor che stringe con furore
da la vista de li occhi à nas[ci]mento.
Che li occhi rapresenta[n] a lo core
d’onni cosa che veden bono e rio,
com’è formata natural[e]mente;
e lo cor, che di zo è concepitore,
imagina, e piace quel desio:
e questo amore regna fra la gente.
Segue uno dei più celebri sonetti dei Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca, prima raccolta di poesie della letteratura italiana nella forma "moderna", ovvero curata dall’autore stesso:
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui.
Anche uno dei più grandi autori ed intellettuali italiani di tutti i tempi, Giacomo Leopardi, ha composto dei sonetti (e si noti anche che L’infinito, con i suoi quindici versi, si avvicina tantissimo al genere). Proponiamo qui il suo primo in assoluto, intitolato Letta la Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso, composto a diciannove anni “la notte avanti il 27 Novembre 1817, stando in letto, prima di addormentarmi, avendo poche ore avanti finito di leggere la vita dell’Alfieri” (nota di Leopardi stesso):
In chiuder la tua storia, ansante il petto,
vedrò – dissi – il tuo marmo, Alfieri mio,
vedrò la parte aprica e il dolce tetto
onde dicesti a questa terra addio.
Così dissi inaccorto. E forse ch'io
pria sarò steso in sul funereo letto,
e de l'ossa nel flebile ricetto
prima infinito adombrerammi obblio:
misero quadrilustre. E tu nemica
la sorte avesti pur: ma ti rimbomba
fama che cresce e un di fia detta antica.
Di me non suonerà l'eterna tromba;
starommi ignoto e non avrò chi dica:
a piangere i'verrò su la tua tomba.
Per concludere, citiamo un sonetto di Eugenio Montale dal titolo Gli orecchini, incluso nella raccolta La bufera ed altro, edita nel 1956:
Non serba ombra di voli il nerofumo
della spera. (E del tuo non è piú traccia.)
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d’oro scaccia.
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l’iddia che non s’incarna, i desiderî
porto fin che al tuo lampo non si struggono.
Ronzano èlitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giú: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli.
A dimostrazione del successo di questo genere in tutta Europa, ecco in aggiunta un sonetto di William Shakespeare (ben cento cinquantaquattro sono i sonetti della raccolta del 1609 Shake-speares sonnets. Never Before Imprinted), tradotto proprio da Montale:
Spesso, a lusingar vette, vidi splendere
sovranamente l’occhio del mattino,
e baciar d’oro verdi prati, accendere
pallidi rivi d’alchimìe divine.
Poi vili fumi alzarsi, intorbidata
d’un tratto quella celestiale fronte,
e fuggendo a occidente il desolato
mondo, l’astro celare il viso e l’onta.
Anch’io sul far del giorno ebbi il mio sole
e il suo trionfo mi brillò sul ciglio:
ma, ahimè, poté restarvi un’ora sola,
rapito dalle nubi in cui s’impiglia.
Pur non ne ho sdegno: bene può un terrestre
sole abbuiarsi, se è così il celeste.
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