I falsari di parola

E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate 'l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?».

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».

(Dante Alighieri, La Commedia, Inferno, canto XXX, vv. 91-93, 97-99)

Il Sommo Poeta colloca i falsari di parola nella decima bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno e li condanna ad una febbre acuta che li rende decisamente maleodoranti. Il leppo è, infatti, propriamente “la puzza delle materie untuose quando sono arse”, termine forse collegato al latino lippus “cisposo” (secrezione viscosa delle ghiandole palpebrali durante il sonno). La legge del contrappasso prevede, non solo, che atroci malattie colpiscano i falsari di metalli (gli alchimisti), i falsari di monete e quelli di persona, ma Dante punisce severamente anche i falsari di parola, quelli che potremmo definire come diffusori di fake news ante litteram: così come in vita sfigurarono in vario modo la realtà, ora sono loro stessi sfigurati nei corpi.

Andando a conoscere meglio i due personaggi citati, scopriamo la moglie del faraone egiziano Putifarre che, secondo la Genesi, provò a sedurre lo schiavo Giuseppe. L’uomo, tuttavia, a causa della sua sordità, sembrò rifiutare le avances della regina, che offesa lo accusò ingiustamente di violenze condannandolo alla prigione. Il secondo dannato è Sinone, il greco che aveva ingannato i Troiani con il falso racconto del cavallo di Troia, permettendo agli Achei di entrare indisturbati nella città e distruggerla. Insomma, due veri esperti di mistificazione delle informazioni! Per non tralasciare nessun “fatto di lingua”, è interessante ricordare che la stessa parola mistificazione “falsificazione” è nata per inganno, o per meglio dire, per burla: lo scrittore tedesco e barone Friedrich Melchior Von Grimm racconta (in una lettera datata 15 settembre 1764) che il primo ad adoperare per iscritto questo termine fu il cavaliere d’Éon alle spalle di un certo Poinsinet, a cui si fece credere che il re di Prussia gli avrebbe affidato l’educazione del principe. Il vocabolo significa propriamente “fare mistero”, e sarebbe entrato con prepotenza nell’italiano dell’Ottocento dal francese fier (lat. Facere “fare”) e myst(ère) “mistero”, nonostante i tentativi dei puristi della lingua di bandirlo a favore di parole “nostrane”.

Avete notato che ritroviamo il binomio dantesco fetore/inganno anche nelle espressioni che usiamo tutti i giorni per indicare che qualcosa non ci convince appieno? Ad esempio, la frase la sua gentilezza mi puzza indica che un atteggiamento inaspettatamente cortese “insospettisce” e, più chiaramente, se diciamo che una vicenda puzza d’imbroglio intendiamo comunicare la nostra “preoccupazione per la presenza di un possibile pericolo”. Il senso dell’olfatto, infatti, generalmente ci permette di percepire a distanza le caratteristiche di una sostanza ancor prima di vederla, o può inviarci segnali discordanti rispetto all’apparenza. Allo stesso modo, l’espressione avere fiuto è da sempre associata ad “intuito e perspicacia” e chi ha fiuto per gli affari sicuramente riesce a guadagnare in molte situazioni! E voi, sentite puzza di bruciato?

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