Parole in giallo

 È proprio il caso di dirlo: i grandi classici non tramontano mai, anche quando il tramonto si tinge di… giallo! Sono, infatti, molti i film e le serie tv di ultimissima generazione ispirati ai grandi romanzi polizieschi del passato. Pensiamo al detective Hercule Poirot, nato nel 1920 dall’acuta penna di Agatha Christie, che è stato riportato con successo sul grande schermo dal regista Kenneth Branagh con Assassinio sull’Orient Express (2017), Assassinio sul Nilo (2022) e Assassinio a Venezia (2023); ma ricordiamo anche la fortunata serie televisiva Sherlock (2010-17), liberamente tratta dai romanzi di Sir Arthur Conan Doyle (fine Ottocento), oppure la recentissima miniserie La caduta della casa degli Usher, che reinterpreta più racconti o poesie del maestro del noir Edgar Allan Poe.


Questo genere affascina giovani e adulti per la sua aura di mistero, parola di origine greca (derivato di mystes “iniziato”), che nasce però in ambito religioso pagano per indicare “i riti iniziatici compiuti dai fedeli dei vari culti”, come ad esempio quello dionisiaco od orfico. Il mistero nasce, dunque, come qualcosa di segreto riservato a pochi eletti, per poi estendere genericamente il suo significato ad un “fenomeno nascosto, difficile da spiegare chiaramente”. Nel Medioevo venivano chiamate misteri le “sacre rappresentazioni”, cioè gli spettacoli drammaturgici a tema religioso (ad esempio le vite dei santi), mentre, ancora oggi, i cristiani parlano dei misteri della fede, ossia di “verità soprannaturali che l’intelletto umano non può comprendere, ma che vengono rivelate agli uomini per essere abbracciate con la sola fede”, come ad esempio la natura una e trina di Dio (Padre, Figlio e Spirito Santo).

Nel genere giallo ciò che cattura maggiormente il pubblico è l’essere coinvolto nella scoperta della verità, nel disvelamento del mistero: il lettore o lo spettatore hanno la possibilità di formulare le proprie ipotesi sull’accaduto e rimanere con il fiato sospeso fino alla soluzione del caso. Uno dei passaggi principali di quest’operazione è sicuramente la verifica dei cosiddetti alibi dei personaggi, ossia della “dimostrazione della propria estraneità ai fatti”. La parola alibi è un termine di origine latina, che originariamente voleva dire “altrove”, ma oggi se ne serve il diritto penale per indicare “le prove di estraneità ad un delitto, in quanto non ci si trovava sul luogo dello stesso” ovvero, per l’appunto, altrove. Tra i modi di dire, sicuramente avere un alibi di ferro rende bene l’idea dell’inattaccabilità della propria posizione, mentre, in senso più generico, possiamo usare la frase crearsi degli alibi per dire che una persona “cerca delle scuse, delle giustificazioni”.
Un ultimo termine che decisamente non può mancare sulla scena del crimine è la parola movente, participio presente sostantivato del verbo muovere. Il movente è esattamente “l’impulso, la motivazione che porta ad agire”, insomma, identifica chiaramente perché una determinata cosa è stata fatta e, nel nostro caso, perché un delitto è stato commesso. Sono classici moventi letterari (ma ahimè tristemente legati alla realtà) la gelosia, l’invidia, la vendetta o i problemi economici (come ricatti, prestiti non restituiti, ecc.). Un sinonimo della prima di queste motivazioni, la gelosia amorosa, è l’espressione movente o delitto passionale; nel nostro diritto penale la “violenta passione” è considerata un’attenuante di pena, concetto che secondo alcune posizioni sembrerebbe quasi richiamare l’antico delitto d’onore, abolito dalla legge italiana nel 1981, mentre la premeditazione, ossia la “pianificazione volontaria di un crimine”, è invece una circostanza aggravante, punita con il massimo della pena. E voi, che ne pensate?

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