A proposito di uno degli ultimi tormentoni dell’italiano parlato

Partendo dal fatto che, come osservava Tullio De Mauro, le lingue sono vive innanzitutto perché esistono in forma parlata e che perciò esse sono per natura in perenne cambiamento, rimane essenziale l’osservazione di alcune norme perché gli interlocutori siano in grado di comprendersi fra loro.
A ciò si aggiunge che, se l’obiettivo di una lingua è quello di dare ad ognuno la possibilità di esprimere sé stesso, è necessario salvaguardare la ricchezza e la varietà delle lingue poiché maggiori saranno gli strumenti a disposizione degli individui, maggiore sarà la loro libertà di dire ciò che pensano.
La riflessione che segue non è dunque volta a promuovere un rigido e inutile purismo, quanto piuttosto a stimolare una maggiore cura nella scelta delle parole che utilizziamo. Il linguaggio articolato è, d’altra parte, una delle caratteristiche che ci distingue in quanto esseri umani ed è degno quindi della nostra massima attenzione.
L’espressione sulla quale crediamo necessario oggi soffermarci si può quasi definire una “stampella linguistica”: si tratta della locuzione “quello che è”, con annesse varianti determinate dai diversi tempi del verbo essere (“quello che era”, “quello che sarà”, ecc.). La sua frequenza è altissima soprattutto nel parlato delle occasioni formali: essa è infatti percepita da alcuni come utile a elevare il registro del discorso.
A ben vedere, tuttavia, non serve a nulla: togliendola, il significato della frase non cambia. Facciamo un esempio: “il governo ha presentato stamane quelle che sono le nuove regole del codice della strada”. Eliminando la “stampella linguistica”, la frase è non solo corretta, ma anche decisamente più semplice, chiara e quindi migliore: “il governo ha presentato stamane le nuove regole del codice della strada”.
Non è un caso se Luca Bellone, professore di Filologia e linguistica dell’Università degli Studi di Torino, nel suo articolo intitolato «Quello che è...»: nuove riflessioni su un “modismo” recente (in “Carte Romanze”, 8/2, 2020) definisce l’espressione come “uno ‘snobismo’ del parlato caratteristico degli ambienti colti (o con qualche pretesa di cultura) che va accostato ad altri numerosi tormentoni” (p. 376).
Se dunque il nostro obiettivo è apparire “eleganti”, ricordiamo che la semplicità è la via migliore per raggiungerlo.

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