Facciamoci un esame di coscienza: ogni giorno, a casa o sul lavoro, quante parole inglesi usiamo che potrebbero tranquillamente essere sostituite da un corrispettivo italiano? Pensiamo, personalmente, a quando abbiamo iniziato e soprattutto al perché: le risposte ci sorprenderanno, rendendoci un po’ più attenti alle nostre scelte linguistiche. D’altronde, è una questione che ha attanagliato anche il nostro Mario Draghi!
In politica, secondo l’analisi del linguista Michele Cortelazzo, molti termini inglesi vengono usati come filtro distanziante quando ci sono in ballo questioni divisive per l’opinione pubblica, ad esempio stepchild adoption “adozione del configlio”, job act/job acts “riforma del lavoro”, spending review “taglio della spesa pubblica”. Usando l’inglese, il messaggio di cui questi vocaboli si fanno portatori non arriva diretto, ma si opacizza, viene diluito, annacquato, attirando meno l’attenzione dei cittadini. Nella quotidianità invece, quante volte abbiamo usato il weekend al posto del fine settimana o il/la partner per compagno/a, socio/a? Addirittura, anche il Festival di Sanremo di quest’anno è stato definito, dal suo stesso presentatore, come l’edizione “Sanremo 2022”, letta all’inglese: “venti ventidue”!
Un altro ambito estremamente permeato dal lessico inglese è quello lavorativo. Anche solo per entrarne a far parte, ormai servono interview “colloqui” e assessment “valutazioni di abilità”. In particolare, in ambito aziendale si schedulano gli appuntamenti, per “programmarli”, stando attenti a matchare i calendari, ossia a “trovare un momento che vada bene per tutti”, individuando il giusto slot “fascia oraria” in vista di una call “videoconferenza” o di un meeting “una riunione” dedicata a tutti i team “squadre/gruppi di lavoro” dell’ufficio. Anche la location “luogo” è fondamentale per la buona riuscita dell’evento e, se non la si dovesse ancora conoscere, sarà semplicemente comunicata nell’invitation “invito” con la sigla TDB (to be defined) “da definire”. Non potrà mancare neanche la richiesta di un attento report “resoconto” di fine incontro, da consegnare entro una deadline “scadenza” prestabilita. Infine, a tutti gli invitati sarà richiesto asap (as soon as possible) “il prima possibile” un feedback “riscontro” di partecipazione.
Restando in tema, il giornalista Beppe Severgnini, in un articolo scritto per il Corriere della Sera, davanti alla nostra stessa domanda si risponde un po’ come il prof. Cortelazzo: a volte usiamo l’inglese per ignavia o imprudenza, quando chiamiamo stalker un “persecutore” o caregiver una “badante”, attutendo la potenza di significato che le parole portano con sé. Tuttavia, ironizza, altre volte –soprattutto in questi ultimi anni così faticosi – sembra che usiamo l’inglese per consolarci: anche se Spagna e Francia hanno adottato, rispettivamente, gli autoctoni confinamiento e confinement, in Italia ha prevalso la parola più internazionale lockdown, forse perché suona un po’ meno brutto di una “reclusione”. In tanti altri casi l’alternativa all’inglese non c’è: tante discipline scientifiche si servono di neologismi introdotti direttamente dal mondo della ricerca e non è sempre facile trovare rapidamente un sostituto adeguato in tutte le lingue. Sono tanti dunque i motivi, più o meno nobili, per cui si fa ricorso a parole inglesi: pigrizia, moda, intenzione più o meno esplicita di non farsi capire, abitudine, condizionamento del proprio ambiente, voglia di precisione, o altro. Allora iniziamo ad allenare la nostra coscienza linguistica, ma senza sensi di colpa!
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