Con gusto… arabo!

Se è ormai noto che molti termini gastronomici, diffusi a livello internazionale, sono parole italiane come panino, pizza o pasta, è altrettanto vero che in quest’ambito anche la lingua araba ha fatto la sua parte.

Tra i cosiddetti “prestiti non adattati”, cioè quelle parole che vengono usate dalle altre lingue mantenendo la loro forma originaria, in italiano abbiamo, ad esempio, i nomi di alcune pietanze che potremmo inserire nella categoria degli antipasti, come l'hummus (“ceci” in arabo), che indica una tipica crema di ceci e sesamo, e i falàfel (o felàfel) ossia delle aromatiche polpettine di legumi e spezie. Passando ai primi, o meglio ancora ai piatti unici, troviamo il cous cous (pietanza originaria del Maghreb a base di semola di grano duro), che nella sua versione italiana ha modificato in “c”, la “k” araba di kuskus. E pensare che il cous cous popola anche le ricette tradizionali della Sicilia e della Sardegna occidentale, per via della dominazione araba: sono celeberrimi i cous cous di pesce del trapanese e dell’Isola di Carloforte!

 

Dulcis in fundo – è proprio il caso di dirlo – la parola zucchero rappresenta un “prestito adattato”, che riprende l’arabo sùkkar, a sua volta derivante dal sanscrito car-kara “grani di sabbia” (composto dalla radice sanscrita car- “rompere in pezzetti”). Aggiungiamo alla lista degli arabismi anche il nostro sorbetto, preparazione rinfrescante da consumare solitamente a fine pasto, nato dal verbo sharaba “bere”. E per rimanere in tema di bevute, lo stesso caffè riprende l’arabo qahwa, ma non la medesima tradizione: chi ha visitato i paesi di cultura araba sa bene quanto sia diverso il nostro espresso dal rituale locale! Si tratta infatti di una bevanda di preparazione complessa, a base di polvere di caffè e aromatizzata con varie spezie, come il cardamomo, l’acqua di fiori d’arancio (o rose), la cannella, i chiodi di garofano e lo zafferano; lo stesso giallissimo zafferano, a cui diamo un nome sempre adattato dalla parola araba za’farān. Tutto torna: incredibile, non è vero?

Basta poi cercare bene tra i banchi del mercato per scoprire che anche la frutta e la verdura comune può celare dalle radici arabe. Pensiamo, ad esempio, all’arancio (in arabo narangi “il frutto favorito dagli elefanti”), entrato in Europa tramite lo spagnolo; il limone (in arabo limum); il carciofo, dall’arabo al kharšūf “lo spinoso” (dove al corrisponde al nostro articolo determinativo, che si è mantenuto ad esempio nello spagnolo alcarchofa) e gli spinaci (in arabo aspanākh) introdotti dai saraceni in Sicilia attorno all’800 d.C.

Incredibile: sembra proprio che viaggiare sulle coste del Mediterraneo con occhi e orecchie aperte alla tradizione culinaria si potrebbe trasformare in una profonda esperienza storica e linguistica.

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