Sapete come abbiamo scoperto i segreti e la storia di molti giochi e passatempi che ci intrattengono ancora oggi? Incredibile ma vero: grazie ai sermoni dei predicatori, che ammonivano pubblicamente chi giocava d’azzardo descrivendone le abitudini, e grazie alle novelle di fine Trecento e Quattrocento, quindi grazie alla letteratura!
In particolare, la novella era un genere che raccontava storie legate al contesto dell’epoca e, soprattutto, che voleva divertire. I protagonisti si dilettavano, infatti, in giochi di tutti i tipi, dalle spettacolari gare all’aperto come la giostra, il torneo, la caccia o la scherma, fino ai giochi da tavolo come i dadi, la primiera (antenato dell’odierno poker) e gli scacchi. Infine, feste, musica e danza non sono mai mancate: è proprio il caso di dire che non hanno età!
Sembra davvero che i giochi siano una cosa seria, cioè che – a prescindere dalle varie regole che nel tempo sono variate – rappresentino l’espressione della cultura che li adotta, ritrovando, in quelli più in voga al momento, i propri valori. La fortuna, il successo e la popolarità dei giochi sono mutati, infatti, con i cambiamenti sociali e, come la letteratura, possiamo considerarli delle chiavi di interpretazione del mondo.
Ad esempio, tra i giochi all’aperto più antichi e rappresentati, abbiamo il bigordo, tanto sconosciuto quanto interessante, perché ha dato origine alla parola bagordo, che usiamo ancora oggi con il significato figurato di “divertimento, festeggiamento eccessivo”. Bigordare consisteva nel “far effettuare al cavallo una breve corsa verso un ostacolo, contro il quale si dovevano infrangere delle lance”, chiamate appunto bigordi. Nel Trecento Il bigordo, assieme al torneo e alla giostra, era un gioco con cui si dimostravano la propria appartenenza ai ceti alti e la capacità di conquistare una donna, attraverso l’abilità di armeggiare. Già a partire dal Quattrocento, quando con l’Umanesimo si è iniziata a prediligere la cultura alle armi, anche questi giochi si sono pian piano trasformati diventando spettacoli di diletto, quasi come se si andasse a teatro.
Aggiungiamo un’altra riflessione: fateci caso, quando in una società la concezione del tempo cambia, anche la logica del gioco ne risente. Per mantenere un esempio estratto dalla novellistica del Trecento, leggendo questi testi si capisce che trascorrere il proprio tempo giocando non era considerato un grave spreco (molte novelle ci raccontano di scherzi durati giornate intere o di lunghissime storie narrate per intrattenere, basti pensare al Decameron di Boccaccio), ma perdere soldi lo era, eccome! Nel Quattrocento, invece, inizia a comparire tra le pagine con molta frequenza l’espressione perdere tempo, anche in associazione al gioco, e addirittura – dato che il tempo perso non si può recuperare – in molte novelle dell’epoca viene ribadito che perderlo è peggio di perdere denaro!
Insomma, non parliamo solo di “giochi da ragazzi” ma di specchi del cambiamento. E voi, prendendo spunto dai giochi che amiamo oggi, che cosa pensate del nostro tempo?
Commenti