Sono moltissimi i termini che in quest’ultimo anno si sono affacciati alla soglia di casa della nostra lingua contemporanea, basti pensare che solo l’aggiornamento digitale del 2023 del Vocabolario Zingarelli ne annovera un migliaio! Tra questi, scorgiamo varie parole che parlano di una maggiore attenzione all’ambiente e alla sostenibilità, intesa non solo dal punto di vista ecologico ma anche economico ed etico-sociale, nell’ottica di garantire uno sviluppo collettivo che non comprometta la stessa possibilità alle generazioni future.
Una rappresentazione pratica di alcuni di questi obiettivi è, ad esempio, il termine decluttering. Si tratta di un vocabolo di origine inglese composto dal prefisso privativo de- e dal sostantivo clutter “disordine” nato per definire “l’arte del riordino basata sull’eliminazione del superfluo”. Il decluttering è divenuto popolare nell’ambito della moda sostenibile e, in generale, grazie alla maggiore attenzione dell’opinione pubblica ad uno stile di vita che eviti lo spreco; ma non esiste solo il riordino degli ambienti, possiamo parlare anche di decluttering mentale quando attuiamo delle strategie per “liberare la mente”, fare ordine nei pensieri e ridurre lo stress. Ci avete mai provato?
Un secondo anglicismo molto diffuso nei discorsi ambientalisti contemporanei è quella che ci allerta su una triste realtà: purtroppo può capitare che l’attenzione all’ecologia da parte delle grandi multinazionali sia solo di facciata, e in questo caso si parla di greenwashing. Alcune realtà aziendali tentano, infatti, di apparire come ecologicamente responsabili quando in realtà non lo sono: possiamo quindi dire che si limitano a “tingersi di verde”. Questa espressione fonde il termine inglese che indica il “colore verde” green – da sempre simbolo di attenzione verso la natura – con il termine whitewashing “imbiancare o nascondere”. Grazie ad un’unica eloquente parola riusciamo a smascherare uno stratagemma subdolo, finalizzato a ripulire la reputazione delle imprese grazie a progetti e collaborazioni apparentemente sostenibili.
Quando incontriamo altri prestiti dall’inglese come body shaming e fat shaming passiamo dalla sostenibilità ambientale a quella sociale. Si tratta di parole che indicano la “derisione” (dal verbo inglese to shame) che può essere esercitata su qualcuno per via della propria forma fisica (se si è bassi, alti, magri, grassi) o per via del proprio peso (in inglese fat “grasso”) considerato eccessivo. Un altro termine di derivazione angloamericana, ma questa volta adattato all’italiano, è la parola abilismo (dall’ingl. ableism) ossia la “discriminazione nei confronti delle persone disabili”. In questo caso si tratta di una parola diffusasi negli ultimi anni ma esistente già dagli anni Ottanta nell’ambito degli studi sulla disabilità, intesa come prospettiva sociale multidisciplinare (e non in ambito medico). Un esempio di linguaggio abilista è l’uso di espressioni offensive quali “ma sei cieco?”, “sembri un handicappato” e, allo stesso modo, un atteggiamento abilista è il pietismo nei confronti delle persone con disabilità.
Restando nella sfera dell’inclusività sociale, completiamo la nostra disamina delle “parole nuove” con il termine neurodiversità. Si tratta di una parola che riprende il confisso di origine greca neuro- “relativo al sistema neurologico” e il sostantivo diversità, come probabile calco dall’inglese neurodiversity, per indicare “la diversità tra le strutture mentali degli individui”, che rispecchia nel campo dell’organizzazione neurologica il più conosciuto concetto di biodiversità. Data per assodata la neurodiversità che caratterizza ciascun essere umano, questo termine include anche i “profili atipici di sviluppo neurologico” quali ad esempio i disturbi dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia), i deficit di attenzione con iperattività e l’autismo. Solo negli ultimi anni, infatti, abbiamo imparato a considerarle delle “varietà di organizzazione mentale” cioè vere e proprie differenziazioni biologiche e non disabilità. Di qui, attorno al 2010, si è sviluppata una terminologia specifica sull’argomento, che definisce neurotipici gli individui “il cui sistema nervoso ha seguito uno sviluppo standard” e neuroatipici o neurodivergenti “gli individui che dimostrano un neurosviluppo non standard”, a cui conseguono diversi modi di percepire, comunicare e socializzare, ma che non rappresentano in alcun modo una malattia da curare.
Insomma, dalla sola osservazione di questa manciatina di parole nuove possiamo farci un’idea di quanto il mondo si stia evolvendo velocemente e di come la lingua provi a stargli dietro, forgiando nuove definizioni per nuovi concetti. Perché non dire che “parliamo come pensiamo”?!
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