Profumo d’Egitto

Quando sono nati i primi profumi? Probabilmente la risposta a questa domanda si perde nei secoli, ma sicuramente possiamo affermare che già il popolo egizio ne faceva un grandissimo uso. Grazie, sia alle testimonianze egizie, sia ai racconti di vari dotti dell’antichità, come Discoride Pedanio (medico e botanico greco del I secolo d.C.), il filosofo Plutarco (I-II sec. d.C.) e il medico Galeno, sappiamo che gli aromi profumati (in latino fumum) venivano usati non solo durante i riti sacrificali in onore degli dèi, perché si pensava che rappresentassero un tramite con l’aldilà, ma anche come medicamento per le loro proprietà lenitive e curative. Se andiamo a leggere gli scritti che questi personaggi storici ci hanno lasciato, scopriamo che l’antenato per eccellenza del nostro profumo si chiamava Kuphi (da kp.t “fumigazione, profumo da bruciare” attraverso il greco kyphi) e consisteva in un preparato aromatico impiegato in abbondanza dai sacerdoti. Non veniva, infatti, usato come un moderno prodotto cosmetico, ma poteva presentarsi in forma solida per essere bruciato o in forma liquida per aspersioni cutanee o per essere bevuto. 


Come afferma l’egittologa Maria Carmela Betrò, il Kuphi “ancora conserva gelosamente il segreto ultimo della sua composizione” e sebbene molti testi antichi ne tramandino la ricetta, “sarebbe meglio parlare di ricette, giacché, se le tre egiziane sostanzialmente concordano, le altre divergono nel numero e nella natura degli ingredienti usati”. Giusto per fare qualche esempio, nel suo Materia Medica, Discoride ne riporta la ricetta a base di semi di ginepro, uva, resina, calamo aromatico, mirra, vino, miele e aspalato; mentre, nel testo Iside e Osiride, Plutarco afferma che gli ingredienti fossero esattamente sedici (aggiungendovi cardamomo, lentisco, bitume, lapazio ecc.), per l’importanza simbolica che questo numero rappresentava, essendo il quadrato di un quadrato e l’unico fra i numeri a formare un quadrato in cui il perimetro era uguale all’area. La tradizione greca tarda (ad esempio Paolo d’Egina nel suo Epitome), invece, ci tramanda una composizione di 36 ingredienti; questa volta il riferimento numerico è collegato ai 36 decani ossia “le 36 stelle del cielo a cui era associata un’ora della notte, alternandosi a seconda del periodo dell’anno”, parte fondamentale dello zoodiaco egizio. Per i più curiosi, i 36 decani sono splendidamente visibili nel soffitto astronomico che adorna la tomba di Senemut, collocata presso la Necropoli Tebana, sulla sponda occidentale del Nilo, dinnanzi alla città di Luxor: uno spettacolo!

Interessantissimo è poi il caso delle ricette egizie del kuphi che, a discapito delle aspettative, non si conservano su pregiati rotoli di papiro ma si trovano addirittura sulle pareti di due celebri templi: quello di File (vicino ad Assuan) e quello di Edfu. Il maestoso tempio di Edfu è dedicato ad Horus, il dio Falco, ed ha una spettacolare struttura “a cannocchiale” che permette di passare da un grande ingresso a spazi progressivamente più piccoli e meno illuminati, fino ad arrivare alla stanza interna del santuario, completamente buia, dove si pensava che la luce divina illuminasse l’oscurità. Una delle stanze che compongono il plesso era, appunto, adibita a “laboratorio chimico” e le sue pareti riportano incise le ricette dei profumi e degli incensi dell’epoca, tra cui quella del pregiato kuphi. Lo stesso Filippo il Macedone, padre del celebre Alessandro Magno, secondo la testimonianza del medico Galeno (nel suo testo Antidoti XIV), avrebbe inserito il kuphi tra gli ingredienti della sua rinomata Ambrosia, un preparato che usava contro i veleni mortali e le ferite gravi: insomma un vero toccasana!

In attesa che gli studiosi e i mastri profumieri riproducano il misterioso kuphi, che già in molti hanno provato a realizzare, il Museo Egizio di Torino non solo ha organizzato qualche anno fa Egitto Essenziale, un percorso a 360 gradi tra essenze (loto, dragoncello, cumino, mirra ecc.) e reperti dell’antico Egitto, ma nel 2022 ha collaborato con i ricercatori dell’Università di Pisa per riuscire ad “annusare” il contenuto dei vasi e delle anfore della tomba di Kha e Merit. Davanti a reperti risalenti a 3.500 anni fa, è proprio il caso di dire che essere dei ficcanaso era d’obbligo!

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