Il futuro è passato qui

I nomi di mestiere hanno sempre rappresentato una fotografia della società, ritraendone i cambiamenti e lo sviluppo tecnologico. Con il corso del tempo sono nate nuove professioni e molte altre si sono evolute, completamente stravolte o addirittura estinte. La lingua le ha accompagnate nel loro destino, e ne resta fedele testimone.


I cosiddetti “mestieri scomparsi” suscitano sempre curiosità e grande fascino. Ad esempio, possiamo ricordare lo stagnino o magnano, che svolgeva una vita itinerante tra le piazze cittadine con una fucina portatile alimentata a carbone, per riparare e saldare le pentole e i secchi o realizzare piccoli oggetti in metallo, come ad esempio le chiavi o le maniglie. Il suo nome deriva dall’utilizzo dello stagno rovente per le saldature, ma la variante magnano risale probabilmente al latino *manianus, derivato di manus “mano”, in riferimento alle maniglie e alle serrature oggetto del suo lavoro. Ritroviamo tracce di quest’antica professione nei diffusi cognomi Magnano o Magnani.


Il solfanaio o zolfanellaio, invece, verso la fine dell’Ottocento vendeva gli antenati dei fiammiferi, ossia gli zolfanelli: cannicci spezzettati nello zolfo fuso che, a contatto con la brace, prendevano fuoco ed erano utili per riaccendere le fascine dei focolari. Una volta caduti in disuso gli zolfanelli, il solfanaio si trasformò in una sorta di rigattiere che comprava e vendeva stracci, pelli di coniglio e altri materiali di scarto. Nel bolognese si narra che, a causa delle proteste dei cittadini per le dispense maleodoranti dei solfanai, il Comune gli assegnò un monte su cui trasferirsi, ancora oggi chiamato “monte Donato”, proprio per questa ragione.


Il capillaro, nei dialetti napoletani o’ capillaro/capillò/capillone, si occupava di tagliare e raccogliere i capelli delle signore, da rivendere ai fabbricanti di parrucche. Anche in questo caso parliamo di lavoro itinerante, che permetteva di incontrare le varie donatrici interessate a ricevere un compenso pari alla lunghezza della treccia. Ne parla nella sua poesia “‘O capillò”, il poeta, drammaturgo e saggista partenopeo Salvatore di Giacomo, che racconta la storia di una ragazza spinta a vendere la sua bionda treccia per mandarne il ricavato all’innamorato in carcere: “LL’hanno arrestato a Pasca ‘o nnammurato, e s’ha tagliate ‘e trezze d’oro fino pe ne mannà denare a ‘o carcerato.”


Nella Convenzione sulla promozione e protezione del patrimonio immateriale approvata dall’Unesco nel 2003 è stato riconosciuto il valore degli antichi mestieri, come forme di cultura non tangibile, da preservare e tramandare. Al pari dei siti culturali, gli antichi mestieri rappresentano la storia, l’identità e la diversità delle comunità e per questo molte regioni e comuni italiani vi hanno dedicato musei, progetti educativi, giornate commemorative e rievocazioni storiche. Basta scegliere la regione o la città da visitare e si riuscirà a trovare un museo o un’iniziativa che ricordi gli antichi lavori passati per di là.

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