Parole virali

Negli ultimi anni, a causa della pandemia da Covid-19, molte parole del lessico medico sono diventate incredibilmente chiacchierate, entrando prepotentemente nell’uso comune. Pensiamo alla diffusione del termine virologo, che indica “lo specialista di virologia” ossia “la scienza che studia i virus”. Alcune di queste parole sulla cresta dell’onda hanno però alle spalle una storia altrettanto interessante, di cui pochi parlano. 

 
Ad esempio, sapevate che il termine virus nasce in realtà molto prima della virologia? Eh sì, già i latini lo utilizzavano per indicare “il succo delle piante” e "il veleno degli animali”, parola probabilmente da ricollegare alla radice indoeuropea vis- “forza vitale e aggressiva”, da cui discende anche il sanscrito vis-as “veleno”. Nel sedicesimo secolo, poi, (attenzione: la virologia risale alla fine dell’Ottocento!) il chirurgo francese Ambroise Paré, medico di Enrico II di Francia e Caterina de’ Medici, l’adottò per indicare il “pus contagioso di una piaga” e di qui entrò nella terminologia scientifica internazionale, assieme al derivato virulento “velenoso” o, se figurato, “violento, rabbioso”. Solo a fine Ottocento si è diffusa l’accezione contemporanea di “organismo infettivo submicroscopico che vive e si riproduce nelle cellule degli esseri viventi”. Già molti ne avevano intuito l’esistenza, dal padre della vaccinazione Edward Jenner, al fondatore della microbiologia Louis Pasteur; ma il primo che classificò ufficialmente questi microrganismi come tali fu il botanico olandese M.W. Beijerinck, dimostrando come dai virus dipendesse un’infezione delle foglie di tabacco. La specializzazione del termine nel campo dell’informatica è invece più vicina a noi: in questo settore virus indica “un codice che una volta inserito nel sistema causa danni importanti”, come la cancellazione di una parte di memoria, l’alterazione dei software installati o il furto di informazioni riservate. Quest’ultima accezione del termine si è diffusa nella seconda metà del Novecento, trovando spazio nei romanzi fantascientifici di David Gerrold e John Brunner, in un volume dell’albo a fumetti di XMen (n.158 del 1982) e nel saggio accademico del californiano Fred Cohen (1984). 
Anche il termine vaccino ha fatto un bel giro: lo usiamo ancora oggi, dal Cinquecento, come aggettivo che identifica “ciò che è relativo alla vacca” (es. il latte vaccino), ma è diventato un sostantivo all’inizio dell’Ottocento, per influenza del francese, a  indicare un “prodotto batterico o virale che, se introdotto nell’organismo, conferisce uno stato di immunità ed è usato per la profilassi delle malattie infettive”. La sua tecnica è stata scoperta dal già citato Jenner nel 1796, quando questi provò a somministrare ad un paziente sano del materiale proveniente dalle ferite cutanee di una donna colpita da una forma di vaiolo trasmessale dai bovini: il paziente divenne immune e la procedura acquisì il nome di vaccinazione proprio perché legata al vaiolo vaccino. 

E che ne dite della quarantena? Ai nostri giorni, purtroppo, ne conosciamo bene il significato medico di “periodo di isolamento di persone sospettate di essere portatrici di infezioni contagiose”. Quest’accezione è in uso dal Quattrocento e fa proprio riferimento al numero di giorni d’isolamento che la repubblica di Venezia richiedeva per il confinamento dei navigli potenzialmente infetti. Molto probabilmente il numero di giorni, e di conseguenza il vocabolo, fu ripreso in analogia ai periodi di purificazione religiosa, come la quaresima. E per concludere in bellezza, non possiamo farci mancare un modo di dire in tema, ossia mettere in quarantena. Vi era venuto in mente che possiamo usarlo per indicare la “mancata diffusione di una notizia non certa”? 

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