Tutti nella vita abbiamo avuto un insegnante che trasaliva al solo pensiero di poter essere chiamato prof. dai suoi allievi. Nonostante le occhiatacce, le urla e le punizioni inflitte ai trasgressori della norma, l’abbreviazione del titolo di professore o professoressa è serenamente sopravvissuta nel linguaggio giovanile, risultando tuttora ampiamente in uso in tutta la penisola. Già dagli anni Novanta, lo studioso Radtke includeva questa abitudine linguistica in un più ampio fenomeno definito come “pretesa comunicazione della vicinanza” assieme, ad esempio, all’allargamento dell’uso del “tu” rispetto al “Lei” e di “ciao” rispetto a “buongiorno”.
Ma come nasce un professore? La parola deriva dal verbo latino profitéri, cioè “dire davanti a tutti, confessare pubblicamente, dichiarare, insegnare”, a sua volta discendente dal greco femì “dire”. Troviamo la stessa radice etimologica nella parola profeta, in cui però la particella greca pro- indica “ciò che sta davanti, il futuro”, quindi il profeta è “colui che predice ciò che avverrà”. Generalmente con i termini professore o professoressa indichiamo un/un’insegnante di scuola secondaria superiore o un/una docente universitario/a mentre, in tono scherzoso, possiamo utilizzare questo appellativo per definire “chi è particolarmente colto e ostenta il suo sapere come se dovesse insegnarlo agli altri”. Per quanto riguarda i suoi derivati, il termine professorino ha un’accezione spregiativa e sottolinea l’inesperienza del docente (magari perché giovane), invece professorone indica “una persona molto competente in ciò che insegna o nell’attività lavorativa che svolge”, anche se recentemente, nel linguaggio giornalistico, ne è stato fatto un uso altrettanto spregiativo per “rappresentare l’insofferenza dei politici di qualsiasi parte politica per i professori che commentano criticamente le scelte dello schieramento di volta in volta al governo” (Cortelazzo).
Restando nel campo delle figure che rappresentano un punto di riferimento per studenti e studentesse, sicuramente nel passato questo ruolo era affidato al precettore o alla precettrice (lat. praecipere “prescrivere, raccomandare”). Si trattava di veri e propri maestri privati, che avevano il compito di istruire i giovani delle famiglie signorili o di sorvegliare e istruire gli studenti di un collegio dopo le lezioni ufficiali. Oggi useremmo la parola latina tutor “istitutore” derivante dal verbo tueri “proteggere, custodire”, entrata nell’italiano nel Novecento grazie al largo uso che ne faceva l’inglese. Il suo corrispettivo italiano tutore è invece usato sin dal Trecento, anche ¬– ad esempio – in ambito legale: tutore minorile. Tornando al tutor, lo troviamo soprattutto nelle università, con il compito di consigliare gli studenti sulle proprie scelte accademiche, supervisionando il loro operato. Può capitare che il/la tutor non sia un docente, ma uno studente o una studentessa più grande, in grado di aiutare le matricole proprio perché ha già vissuto le stesse esperienze. In questo caso, ma anche a livelli scolastici inferiori, si parla di peer tutoring o tutoraggio tra pari, perché sono gli studenti stessi ad aiutare i propri coetanei. Ricordiamo infine che la parola tutor è invariabile (cioè che presenta la stessa forma al singolare e al plurale): si tratta di un forestierismo ormai stabilizzato. Siamo, cioè, di fronte ad un vocabolo di origine straniera che utilizziamo da molto tempo. Non diremo o scriveremo i/le tutors (ing.) o i/le tutores (lat.) ma i/le tutor, come avviene anche con altri termini che hanno una storia simile: forum, auditorium, sponsor, ecc.
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